Imprese e lavoratori dipendenti possono – mediante un accordo individuale aggiuntivo ed accessorio al contratto di lavoro subordinato – prevedere che la prestazione lavorativa si svolga – in parte – al di fuori dei locali aziendali, anche senza precisi vincoli di orario e di luogo, valorizzando fasi, cicli ed obiettivi di lavoro; si tratta di elementi che avvicinano lo smart worker al collaboratore autonomo; è bene, dunque, cercare di cogliere la distinzione tra le due figure.
Altri aspetti delicati della materia riguardano la scelta del luogo di lavoro “al di fuori dei locali aziendali”, l’articolazione dell’orario di lavoro (inclusa la gestione dello straordinario) e – soprattutto – il potere di controllo del datore di lavoro.
Anche la durata del patto (a tempo determinato o indeterminato) e le modalità di recesso dallo smart working sono di fondamentale importanza e possono essere disciplinate dall’accordo individuale.
Sommario
1. La definizione di smart working.
2. Lo smart worker e il collaboratore autonomo a confronto.
5. Il potere di controllo e disciplinare.
6. Durata dell’accordo di smart working e sua cessazione
1. La definizione di smart working
Lo smart working (o “lavoro agile”) è definito, dalla legge n. 81/2017, come una particolare “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato”, il cui tratto essenziale è che
“la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa”.
La legge, per il resto, lascia alle parti ampia autonomia: è un accordo individuale a dover individuare, in base alle concrete caratteristiche della prestazione lavorativa ed alla comune volontà dei contraenti, la particolare “modalità di esecuzione del rapporto”, “anche”
- CON forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi
- SENZA precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro,
- CON il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa,
- entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
2. Lo smart worker e il collaboratore autonomo a confronto.
La figura dello smart worker si avvicina a quella del collaboratore autonomo, “senza precisi vincoli di orario o di luogo”, la cui attività sia orientata al risultato finale (“l’obiettivo, le fasi, i cicli”…).
Paradossalmente, la stessa impresa potrebbe (legittimamente) contare su collaboratori (genuinamente) autonomi che lavorino (in buona parte) all’interno dei locali aziendali e su lavoratori subordinati che lavorino (in buona parte) al di fuori dei locali aziendali.
Lo smart working rientra, comunque, nel lavoro subordinato. Il datore di lavoro è titolare del potere direttivo, che esercita mediante ordini puntuali, stabilendo, di volta in volta, l’oggetto dell’attività lavorativa demandata al dipendente, in funzione delle esigenze aziendali. Il lavoratore agile, dal canto suo, come ogni altro dipendente, mette a disposizione dell’imprenditore le proprie energie lavorative, in attesa delle direttive.
Le collaborazioni coordinate e continuative di carattere prevalentemente personale, invece, sono caratterizzate dalla natura (genuinamente) autonoma del rapporto: l’attività lavorativa è dedotta in contratto, non dovendosi conformare a successive direttive; inoltre, il collaboratore “organizza autonomamente l’attività lavorativa”, sia pure “nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti” (art. 409 c.p.c.).
Le collaborazioni coordinate e continuative sono escluse dalla disciplina sul lavoro dipendente; si applicano loro solamente determinati istituti (in particolare, l’annullabilità di rinunce e transazioni, il processo del lavoro e la tutela previdenziale, con l’iscrizione alla Gestione separata INPS).
Da notare come l’accordo individuale caratterizzi sia lo smart working, sia le collaborazioni coordinate e continuative. Diverso, però, è l’oggetto dell’accordo: nello smart working può riguardare le “forme di organizzazione” dell’attività lavorativa, ma anche le “forme di esercizio del potere direttivo”, che dunque permane in capo al datore di lavoro; nelle collaborazioni coordinate e continuative, l’accordo ha ad oggetto esclusivamente le “modalità di coordinamento”.
Peraltro, tali modalità di coordinamento potrebbero includere, ad esempio, la possibilità per il collaboratore di lavorare, magari entro delle fasce orarie, all’interno dei locali aziendali, per la necessità di poter accedere a strumenti o documenti aziendali.
Invece, nelle collaborazioni prevalentemente personali e continuative, etero-organizzate dal committente (art. 2 d.lgs. 81/2015), cui si applica comunque la disciplina sul lavoro dipendente (pur trattandosi di collaborazioni genuinamente autonome), il committente esercita unilateralmente il proprio potere organizzativo (non c’è accordo tra le parti sull’organizzazione del lavoro e -tanto meno- l’organizzazione del lavoro è rimessa all’autonomia del collaboratore), sia pure in difetto del potere direttivo (altrimenti, si tratterebbe di lavoro subordinato).
Il committente impone, in altre parole, le modalità organizzative alle quali l’attività lavorativa debba conformarsi, in maniera però impersonale, senza rivolgere puntuali direttive al prestatore e senza poter mutare, di volta in volta, l’attività lavorativa richiesta, il cui oggetto è dedotto, a monte, nel contratto di collaborazione.
La giurisprudenza ha fatto una prima applicazione dell’istituto con riferimento ai riders, i fattorini utilizzati – mediante le piattaforme digitali – per le consegne porta a porta nelle grandi città: sono autonomi perché possono decidere di non lavorare, sono etero organizzati perché se si candidano, entro una fascia oraria ed una zona, devono uniformarsi all’organizzazione predisposta unilateralmente dalla committenza: si applica loro, dunque, la disciplina sul lavoro subordinato (Cass. 1663/2020).
Da osservare come nelle collaborazioni etero organizzate manchi un accordo sulle “forme di organizzazione”, che sono oggetto di un’imposizione unilaterale del committente, a differenza delle collaborazioni coordinate e continuative e dello stesso smart working, che presuppongono, come detto, un accordo per la regolamentazione di alcuni aspetti organizzativi della prestazione; nello smart working, peraltro, l’accordo non può spingersi fino ad eliminare il potere direttivo datoriale (altrimenti, si tratterebbe di lavoro autonomo e non più subordinato).
3. Il luogo di lavoro
L’elemento essenziale dell’accordo di smart working è che il lavoratore agile renda la prestazione, in parte, al di fuori dei locali aziendali. Si tratta di un elemento oggetto, come detto, di contrattazione individuale, che può svolgersi in ampia autonomia.
Al di fuori dello smart working, nel rapporto di lavoro ordinario, la sede di lavoro è comunque individuata, almeno inizialmente, per accordo tra le parti.
Nel corso del rapporto, può essere modificata unilateralmente da parte del datore di lavoro, in maniera definitiva, solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive (trasferimento).
Invece, eventuali modifiche temporanee (le trasferte) possono essere imposte dal datore di lavoro nell’esercizio del suo potere direttivo.
Nel lavoro agile, poiché si è detto che il datore di lavoro mantiene il potere direttivo, appare logico desumere che mantenga anche il potere di dettare delle variazioni temporanee, rispetto all’accordo individuale (ad es. richiamando il lavoratore presso la sede aziendale, in relazione a particolari esigenze, anche in momenti nei quali era programmato che l’attività si svolgesse da remoto), nonché di imporre l’effettuazione di trasferte, laddove le esigenze aziendali lo richiedano.
È peraltro opportuno che tali facoltà siano previste dall’accordo individuale (che, come accennato, può riguardare “le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro”).
Non appare scontato, invece, riconoscere al dipendente la libertà di lavorare ovunque, a suo piacimento, all’esterno della sede aziendale, in maniera anche totalmente scollegata dalle caratteristiche della prestazione da rendere, se non altro per esigenze di sicurezza sul lavoro (riguardo alla possibilità che si verifichino infortuni in itinere e, più in generale, al dovere del datore di lavoro di garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro), nonché di riservatezza.
Va assegnato un rilievo, in tal senso, ai canoni di correttezza e buona fede, che appaiono violati laddove il dipendente svolga l’attività in luoghi di lavoro del tutto inappropriati, in rapporto al contenuto della prestazione. La soluzione migliore è regolamentare tale aspetto nell’accordo individuale, senza privare – peraltro – il lavoro agile della sua principale caratteristica, che dovrebbe essere, appunto, l’“agilità”, senza irrigidirne troppo lo svolgimento.
Non è scontato, in ogni caso, che la sede “esterna” di lavoro sia l’abitazione del dipendente.
Infatti, ai sensi dell’art. 23 l. 81/2017, “il lavoratore ha diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, (…) quando la scelta del luogo della prestazione sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa o dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative e risponda a criteri di ragionevolezza”.
Pertanto, per le caratteristiche della prestazione o per le esigenze personali “di vita” del dipendente, che possono essere le più varie, purché dotate (ai fini assicurativi) di ragionevolezza, può essere prescelto un luogo diverso dall’abitazione.
4. L’orario di lavoro
Una “parte” del lavoro va svolta entro i locali aziendali ed un’altra “parte” fuori da tali locali. La distinzione può rilevare sia da un punto di vista qualitativo (ci saranno attività che possono svolgersi esternamente ed altre no), sia da un punto di vista quantitativo, con specifico riferimento all’articolazione dell’orario di lavoro.
In proposito, va sottolineato che:
- il lavoratore agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione della contrattazione collettiva, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda;
- l’accordo individuale può “anche” stabilire che la prestazione in smart working sia resa “senza precisi vincoli di orario”, e comunque entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva;
- l’accordo individua altresì i tempi di riposo del lavoratore, nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro.
Si deve, innanzitutto, evitare che il lavoratore agile confonda i propri tempi di vita ed i propri tempi di lavoro, che devono rimanere distinti; altrimenti, oltre ad essere violato il diritto al riposo, verrebbero frustrate le stesse finalità dell’istituto, vale a dire conciliare (e non confondere!) i tempi di vita e di lavoro, nonché aumentare la produttività (normalmente favorita dall’ideale alternanza tra momenti di piena concentrazione verso il lavoro e momenti di pieno riposo e di svago).
Un passaggio delicato è quello dell’assenza di precisi vincoli di orario, peraltro eventuale (“anche (…) senza precisi vincoli di orario”, cfr. art. 18 l. 81/2017).
In tal senso, la collocazione dell’orario di lavoro dello smart worker potrà, certamente, essere flessibile, senza una rigida predeterminazione nell’arco della giornata o della settimana (fermi restando i limiti di durata massima).
La flessibilità della collocazione dell’orario dipenderà, naturalmente, dalle caratteristiche della prestazione e dalle connesse esigenze aziendali; sarebbe un bene che la sua determinazione fosse oggetto dell’accordo individuale, a scanso di equivoci (ad esempio si potranno prevedere delle fasce orarie con una maggiore o minore libertà del dipendente di lavorare negli orari a lui più comodi). Si dovrà prevedere, inoltre, una fascia di “rispetto”, nella quale assicurare al dipendente la totale disconnessione.
Altra questione è quella relativa alla durata della prestazione: occorre chiedersi se al lavoratore agile, che superi l’orario di lavoro normale (40 ore settimanali o la minore durata prevista dalla contrattazione collettiva), spetti il pagamento delle ore di lavoro straordinario, con le maggiorazioni previste dalla contrattazione collettiva.
Soccorre, per individuare una risposta, tendenzialmente affermativa, la previsione del principio di parità di trattamento coi lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente in azienda.
Da un punto di vista pratico, per tenere agevolmente sotto controllo la durata dell’orario di lavoro dei lavoratori agili, basterà prevedere, nell’accordo individuale, un generale divieto di svolgere prestazioni di lavoro straordinario e che eventuali prestazioni eccedenti l’orario normale di lavoro non possano avere luogo se non previa autorizzazione scritta.
Inoltre, le disposizioni sull’orario di lavoro nello smart working andranno coordinate con l’art. 17, c. 5, d.lgs. 66/2003, ai sensi del quale, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, le disposizioni generali su durata dell’orario normale, durata massima dell’orario, straordinari, riposo giornaliero, pause, organizzazione e durata del lavoro notturno, non si applicano ai lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, per le caratteristiche dell’attività esercitata non è misurata o predeterminata o può essere predeterminata dai lavoratori stessi e in particolare quando si tratta di:
– dirigenti, di personale direttivo (anche non dirigente) delle aziende o di altre persone aventi potere di decisione autonomo.
– prestazioni rese nell’ambito di rapporti di lavoro a domicilio e di telelavoro.
Quest’ultimo inciso fa riferimento a tipologie contrattuali differenti dallo smart working e non sembra di poter estendere, in forza di tale richiamo, le esclusioni di cui sopra (ex art. 17, c. 5, d.lgs. 66/2003) allo smart working; anche perché, se così fosse, la normativa sul lavoro agile si sarebbe limitata ad operare un rinvio a tale comma, anziché porre una propria disciplina generale sull’orario di lavoro e rinviare, per il resto, all’accordo individuale.
5. Il potere di controllo e disciplinare
L’accordo relativo alla modalità di lavoro agile disciplina l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali, ai sensi dell’art. 4 legge 300/1970. Dunque, nulla cambia rispetto alla generalità degli altri lavoratori dipendenti.
In particolare, ai sensi dell’art. 4 l. 300/1970, gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo sindacale o, in mancanza, previa autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro.
La disposizione che precede non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. Tra tali strumenti, ovviamente, vi saranno anche quelli in dotazione al lavoratore agile, per lo svolgimento dell’attività da remoto.
Ai fini della verifica dell’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa e della sua misurazione, che può costituire, in effetti, il vero ostacolo da superare, lo strumento migliore appare, ancora una volta, il potere direttivo, nell’esercizio del quale si potrà imporre al dipendente, ad esempio, di redigere un dettagliato report orario della propria prestazione lavorativa, da condividere col proprio superiore gerarchico, sia al momento della preventiva programmazione (anche con riferimento a “cicli, fasi e obiettivi”), sia al momento della successiva rendicontazione (anche ai fini della eventuale quantificazione del corrispettivo dovuto dal cliente finale, in rapporto all’attività svolta dal lavoratore agile).
Va da sé che la violazione della direttiva di redigere il report potrebbe dare luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari.
In fin dei conti, come chiarito, il potere direttivo (e disciplinare) non è eliminabile, altrimenti dal lavoro agile si passerebbe al lavoro autonomo.
6. Durata dell’accordo di smart working e sua cessazione
L’accordo può essere stipulato a tempo determinato o indeterminato.
Alla sua cessazione il rapporto di lavoro permane e prosegue con modalità ordinarie.
La cessazione, naturalmente, avverrà alla scadenza del termine, se il patto è a tempo determinato, oppure in caso di recesso di una delle parti, in caso di accordo a tempo indeterminato. Il recesso potrà avvenire liberamente con un preavviso non inferiore a 30 giorni, oppure – per giustificato motivo – anche senza preavviso.
Se l’accordo è a tempo determinato, si può recedere prima della scadenza solo per giustificato motivo.
La prima osservazione riguarda la nozione di giustificato motivo, che la legge non definisce in alcun modo.
Si tratterà, ad ogni modo, di una ragione in relazione alla quale sia “giustificato” il recesso senza il rispetto del periodo di preavviso o senza attendere la scadenza del termine. Dunque, una ragione che non consenta la prosecuzione nemmeno temporanea della modalità di lavoro agile.
Da notare che il giustificato motivo è richiesto dalla legge anche per il recesso del dipendente senza preavviso o ante tempus.
L’accordo individuale, infine, potrebbe introdurre delle deroghe alla disciplina del recesso, purché in senso favorevole al dipendente.
Tali deroghe potrebbero essere oggetto di trattativa tra le parti, specialmente al momento dell’assunzione, perché il dipendente avrà tutto l’interesse a garantirsi la stabilità nel tempo dell’accordo di smart working, magari rinunciando – in sede di trattativa – ad altre pretese parimenti avanzate.